Glioblastoma Come Si Muore?

Glioblastoma Come Si Muore
Prognosi – Nonostante la loro altissima malignità, raramente i glioblastomi si diffondono in altre parti del corpo al di fuori del sistema nervoso centrale, Tuttavia, il tumore ha un elevato potere infiltrativo e invade spesso zone come le meningi o il liquido cefalorachidiano.

Sebbene non esista una cura per il glioblastoma, la sopravvivenza è migliore se il tumore viene trattato in modo aggressivo. In genere la sopravvivenza alla diagnosi se il tumore è trattato adeguatamente è in media di 14-15 mesi. I tassi di sopravvivenza sono del 40,2% a un anno, 17,4% a due anni e 5,6% a cinque anni.

I bambini con tumori di grado più elevato tendono a sopravvivere più a lungo degli adulti. Circa il 25% dei bambini che hanno questo tumore vive infatti per cinque anni o più. Senza cure, la morte sopraggiunge mediamente nel giro di 4 mesi e mezzo, a causa di edema cerebrale e/o per l’aumento della pressione intracranica,

Quali sono i sintomi finali del glioblastoma?

Introduzione – I tumori che originano nel sistema nervoso centrale (SNC) annoverano numerose possibili forme. Le cellule della glia, tre volte più numerose dei neuroni ed in grado di fornire tra l’altro una struttura alle cellule nervose, rendono conto di quasi il 40% di tutti i tumori del SNC e per questa ragione si opera in genere una distinzione generale tra

tumori gliali (o gliomi) e tumori non gliali.

Il glioma è quindi la forma più comune di tumore del sistema nervoso centrale, a sua volta classificabile in numerosi sottotipi; ad esempio

il glioblastoma è tumore maligno più comune, mentre gli astrocitomi pilocitici sono i tumori cerebrali con prognosi più favorevole.

Più in generale un glioma può influenzare la funzione cerebrale fino a diventare pericoloso per la vita, ma la gravità è variabile in base a posizione e tasso di crescita. Le manifestazioni più comuni dei gliomi cerebrali sono mal di testa, nausea, vomito, convulsioni e, nei casi più avanzati, debolezza e/o alterazione dello stato mentale.

Quanto si sopravvive con un glioblastoma?

Il glioblastoma ha purtroppo prognosi infausta, si tratta di un tumore incurabile con una sopravvivenza mediana di circa 15 mesi (solo il 5,5% dei pazienti sopravvive a cinque anni dalla diagnosi).

Quanto si sopravvive con un tumore alla testa?

LE METASTASI SONO QUASI SEMPRE LOCALI – — La sopravvivenza varia molto in base al tipo di tumore al cervello. Se si interviene precocemente e grazie a un’ampia asportazione, nelle forme Idh mutate il tempo libero dalla malattia medio supera gli 8-9 anni, con una percentuale di recidiva inferiore al 10%,

A 15 anni dalla diagnosi circa il 70% dei pazienti conduce una vita normale. « Purtroppo il quadro è molto peggiore in caso di forme Idh non mutate. Intervenendo chirurgicamente e poi con cicli di chemioterapia o radioterapia è possibile tenere la malattia sotto controllo per un paio di anni, quindi si ricorre ad altre terapie, grazie a cui una percentuale compresa fra il 30% e il 40% dei pazienti è vivo a distanza di 3-4 anni dalla diagnosi » afferma il professor Bello.

In genere, i tumori al cervello primitivi non danno luogo a metastasi al di fuori dell’encefalo, Quelli secondari possono invece derivare da quasi tutti i tumori sistemici, principalmente da quelli alla mammella, al polmone e dal melanoma.22 febbraio – 10:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Qual è il tumore più aggressivo?

Glioblastoma, il più aggressivo tumore al cervello, è stato riprodotto in provetta. Aperta la strada a efficaci cure personalizzate Prof. Roberto Pallini: « Già poche settimane dopo l’intervento possiamo analizzare in laboratorio le cellule staminali di un determinato paziente e conoscere in anticipo la risposta del tumore alla radio-chemioterapia.

Inoltre possiamo testare in laboratorio nuovi farmaci anti-tumorali per giungere a una terapia oncologica personalizzata, cioè adattata in base ai bersagli molecolari trovati nel tumore di ogni singolo paziente ». Su « Neuro-Oncology » lo studio condotto da team ricercatori Università Cattolica-Fondazione Policlinico Universitario A.

Gemelli e Istituto Superiore di Sanità Roma, 14 aprile 2017 – Dalla riproduzione in laboratorio del glioblastoma, il più aggressivo tumore cerebrale, purtroppo ancora oggi senza efficaci terapie, allo studio di cure personalizzate in grado di colpire selettivamente le cellule staminali tumorali che ne favoriscono la recidiva.

È questo in sintesi il risultato dello studio realizzato da una equipe multidisciplinare di ricercatori dell’Università Cattolica – Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma e dell’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica « Neuro-Oncology ». Il glioblastoma è il tumore cerebrale più maligno e, purtroppo, anche più frequente nell’adulto.

In Europa e nel Nord America, la sua incidenza è di 2-3 nuovi casi all’anno su 100.000 abitanti. Non esiste alcun trattamento efficace per una cura completa di questo tumore, né è possibile fare programmi di screening per prevenirlo. Nonostante i progressi dell’oncologia in campo genetico e molecolare, sono stati ottenuti soltanto miglioramenti limitati della sopravvivenza dei pazienti affetti da glioblastoma negli ultimi decenni.

Quasi inesorabilmente, il glioblastoma recidiva nel cervello dopo circa 14-15 mesi dall’intervento neurochirurgico e dalla radio-chemioterapia. La resistenza del glioblastoma alle cure è dovuta verosimilmente alla presenza di cellule staminali tumorali che invece di dare origine a un tessuto sano producono un tumore.

Queste cellule, che rappresentano quindi il reservoir tumorale, sono molto resistenti alle radiazioni e ai farmaci chemioterapici e sono anche in grado di migrare al di fuori del tumore per invadere il tessuto cerebrale, lontano dall’area coinvolta dalla rimozione chirurgica.

In questo studio, pubblicato nelle scorse settimane su Neuro-Oncology, i ricercatori degli Istituti di Neurochirurgia, Anatomia Patologica, e Patologia Generale dell’Università Cattolica e del Policlinico A. Gemelli di Roma in collaborazione con il Dipartimento di Oncologia e Medicina Molecolare dell’Istituto Superiore di Sanità hanno dimostrato che è possibile riprodurre in laboratorio il tumore asportato in sala operatoria attraverso l’impiego delle cellule staminali tumorali.

Queste cellule si moltiplicano in provetta, aggregandosi a formare delle sfere che riproducono in miniatura il tumore del paziente conservandone le caratteristiche genetiche e molecolari. « Già poche settimane dopo l’intervento – afferma il prof. Roberto Pallini, neurochirurgo dell’Università Cattolica-Policlinico A.

  1. Gemelli – possiamo analizzare in laboratorio le cellule staminali di un determinato paziente e conoscere in anticipo la risposta del tumore alla radio-chemioterapia.
  2. Inoltre possiamo testare in laboratorio nuovi farmaci anti-tumorali per giungere a una terapia oncologica personalizzata, cioè adattata in base ai bersagli molecolari trovati nel tumore di ogni singolo paziente ».

« Il passo successivo – secondo la dott.ssa Lucia Ricci Vitiani, ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità – sarà l’identificazione delle alterazioni molecolari alla base della resistenza alle terapie di queste cellule e l’individuazione di bersagli terapeutici alternativi per progettare nuove cure più efficaci ».

« E’ molto importante – aggiunge il prof. Luigi Maria Larocca, Anatomo-Patologo dell’Università Cattolica-Policlinico A. Gemelli – che le cellule staminali tumorali, anche dopo diversi passaggi in coltura, conservano le caratteristiche molecolari del tumore del paziente, permettendo in tal modo di provare l’efficacia di nuovi farmaci non appena disponibili ».

Le ricerche sulle cellule staminali del glioblastoma, iniziate circa 10 anni fa sotto la spinta del prof. Giulio Maira, già Ordinario di Neurochirurgia all’Università Cattolica, e proseguite con il prof. Alessandro Olivi, direttore della Neurochirurgia dell’Università Cattolica-Policlinico A.

Gemelli di Roma, sono stati possibili solo grazie alla forte collaborazione tra la Neurochirurgia del Gemelli e i ricercatori di Anatomia Patologica e Patologia Generale dell’Università Cattolica e del Dipartimento di Oncologia e Medicina Molecolare dell’Istituto Superiore di Sanità. fonte: ufficio stampa : Glioblastoma, il più aggressivo tumore al cervello, è stato riprodotto in provetta.

Aperta la strada a efficaci cure personalizzate

Come sono gli ultimi giorni di vita?

A un certo punto, decidere di non sottoporsi a rianimazione cardiopolmonare Trattamento di primo soccorso (RCP, una procedura di emergenza che ripristina la funzionalità cardiaca e polmonare) è un’opzione indicata sostanzialmente per tutti i malati in punto di morte in grado di accettare tale evento. Il paziente terminale, le famiglie e il gruppo di professionisti che presta assistenza dovrebbero inoltre ascoltare e registrare altre importanti decisioni sull’assistenza medica (se ricoverare in ospedale il malato o affidarsi alla ventilazione meccanica).

  1. Spesso, attuare queste decisioni richiede una serie di azioni specifiche (ad esempio, avere i farmaci a casa per essere pronti a gestire i sintomi).
  2. Il malato e i familiari devono essere inoltre preparati ai tipici segni fisici indicativi di morte imminente.
  3. Lo stato di coscienza può ridursi.
  4. Gli arti diventano freddi, talvolta bluastri o chiazzati.

Il respiro può farsi irregolare. Nelle ultime ore, possono subentrare uno stato confusionale e sonnolenza. Le secrezioni faringee o l’inefficienza dei muscoli della gola provocano un respiro rumoroso, definito anche rantolo della morte. Cambiando posizione al malato o ricorrendo a farmaci per asciugare le secrezioni si può ridurre al minimo il rumore.

Questo trattamento serve a confortare la famiglia o gli assistenti, perché il respiro agonico compare quando il paziente non può rendersene conto. Il rantolo non provoca dolore al malato. Può continuare per ore e spesso significa che la morte interverrà nell’arco di ore o giorni. Al momento della morte, possono comparire contrazioni muscolari e il torace può sollevarsi come durante la respirazione.

Dopo l’arresto respiratorio, è possibile che il cuore si contragga ancora per qualche minuto e possono comparire convulsioni di breve durata. In assenza di una malattia contagiosa, potenzialmente pericolosa per gli altri, i familiari possono toccare, accarezzare e sostenere il corpo della persona cara anche dopo la sua morte.

  • Generalmente, la possibilità di vedere il corpo senza vita della persona cara è di conforto, Gli ultimi momenti della vita di una persona possono avere un effetto a lungo termine sui familiari, sugli amici e sugli assistenti.
  • Quando possibile, il soggetto deve rimanere in un’area tranquilla, silenziosa e fisicamente confortevole.

I familiari devono essere incoraggiati a mantenere un contatto fisico con la persona, ad esempio tenendole le mani. Se desiderato dal soggetto, i membri familiari, gli amici e il clero devono essere presenti. NOTA: Questa è la Versione per i pazienti. CLICCA QUI CONSULTA LA VERSIONE PER I PROFESSIONISTI CONSULTA LA VERSIONE PER I PROFESSIONISTI Copyright © 2023 Merck & Co., Inc., Rahway, NJ, USA e sue affiliate. Tutti i diritti riservati.

Perché viene il glioblastoma?

Quali sono le cause dei Glioblastomi? – Le cause del Glioblastoma al momento non sono ancora note, sebbene esistano dei fattori di rischio che possono aumentare le possibilità di svulippare questo tipo di neoplasie, tra cui:

Esposizione prolungata a radiazioni ionizzanti, compresi precedenti trattamenti con radioterapia Esposizione prolungata ad agenti chimici come cloruro di vinile, pesticidi, prodotti per la raffinazione del petrolio e prodotti per la lavorazione della gomma sintetica

Sebbene il Glioblastoma non sia ereditario, è stato riscontrato un aumento del rischio di sviluppo di questo Tumore al Cervello nei soggetti affetti da patologie genetiche come:

Neurofibromatosi di tipo 1 Neurofibromatosi di tipo 2 Sclerosi Tuberosa Sindrome di Turcot Retinoblastoma Sindrome di Li-Fraumen

Chi ha operato Nadia Toffa?

Christian Brogna in collaborazione con la London Neurosurgery Partnership.

Quante volte si può operare il glioblastoma?

Cura e speranza di vita di un glioma – Glioblastoma Multiforme Per la cura dei gliomi, esistono diversi approcci terapeutici. La scelta di un determinato percorso di terapie e l’esclusione di un altro dipende da sede, dimensione, grado e tipo di glioma, età e stato di salute del paziente.

Il trattamento solitamente più praticato è la rimozione chirurgica della massa tumorale, Gli altri trattamenti adottati consistono in radioterapia, chemioterapia e radiochirurgia. Questi possono essere messi in pratica sia dopo l’operazione di rimozione chirurgica, come completamento di questa, sia come trattamento a sé stante, se il tumore è in una posizione inaccessibile.

Ai pazienti con gliomi di I e II grado si caldeggia l’intervento chirurgico di rimozione, in quanto, di solito, tale operazione ha un discreto successo. Se il chirurgo dovesse optare per una resezione parziale del tumore al termine dell’operazione si procede con sedute di radioterapia o chemioterapia.

  1. L’asportazione del gliomi di III grado va effettuata sempre se è in una sede raggiungibile e nei limiti del possibile, cioè va rimossa più massa tumorale che si può.
  2. Al termine dell’intervento, sono fondamentali i cicli di radioterapia e/o di chemioterapia per eliminare (si spera definitivamente) ciò che rimane della neoplasia.

Purtroppo, anche quando l’intervento viene eseguito in modo preciso e tempestivo, le probabilità di guarire sono davvero esigue. Il glioblastoma multiforme ( GBM ) è un glioma di grado IV ed è il glioma grave più comune. Il GBM ha un ritmo di crescita veloce e una capacità infiltrante notevole.

  • L’unica cura attuabile, in questi sfortunati frangenti, consiste nell’asportazione della parte più consistente del tumore, abbinata alla radioterapia e alla chemioterapia.
  • Se dovesse esserci una recidiva, è possibile intervenire nuovamente e praticare un’altra resezione del tumore.
  • La prognosi, per un individuo affetto da glioma, dipende dal tipo di glioma stesso.

I pazienti giovani hanno un’aspettativa di vita post-intervento più lunga dei pazienti anziani. Le speranze di vita di coloro che sono stati operati di Gliomi di grado I e II sono elevate e solitamente, non si verificano ricadute. Per i gliomi di III grado la sopravvivenza media è di 2-3 anni circa mentre per i gliomi di IV grado la percentuale di sopravvivenza, dopo un anno, è del 30% e dopo due anni è solo del 14%.

Come si prende il glioblastoma?

Il glioblastoma è un tumore maligno che si localizza nel cervello o nel midollo spinale e si forma nelle cellule della glia. Può essere primario o secondario e include astrocitomi, ependimomi e oligodendrogliomi. La causa esatta del tumore non è nota, ma sembra giochino un ruolo fattori come età, sesso, malattie genetiche, storia familiare ed esposizione alle radiazioni.

  • I sintomi del glioma variano in base al tipo di tumore, alle dimensioni, alla posizione e al suo tasso di crescita e includono mal di testa, nausea, vomito, problemi di vista, confusione e cambio di umore e personalità.
  • La diagnosi si basa su esame neurologico ed esami radiodiagnostici.
  • La cura, difficile in questo tipo di tumori, dipende da diversi fattori e comprende, quando possibile, un intervento chirurgico di rimozione del tumore, nonché radioterapia e chemioterapia per colpire le cellule residue.

La prognosi del glioblastoma, nonostante le cure, è infausta, con una sopravvivenza dopo la diagnosi di 14-15 mesi. Poiché le cause all’origine del glioblastoma non sono certe, non esiste una valida metodica di prevenzione.

Qual è il tumore al cervello più aggressivo?

Il problema delle recidive nel glioblastoma multiforme – Il glioblastoma multiforme è una forma di tumore cerebrale molto aggressiva e ancora difficile da curare, anche a causa delle numerose recidive. I pazienti affetti da GBM vengono solitamente sottoposti a interventi chirurgici per la rimozione del tumore, a cui seguono radio e chemioterapia.

Cosa fa venire il tumore al cervello?

Un tumore cerebrale può essere una crescita non cancerosa (benigna) o cancerosa (maligna) nel cervello. Può avere origine nel cervello, oppure essersi diffusa (metastatizzata) al cervello da un’altra parte del corpo.

I sintomi possono includere cefalea, cambiamenti della personalità (le persone diventano depresse, ansiose o disinibite), debolezza, sensazioni anomale, perdita di equilibrio, problemi di concentrazione, crisi convulsive e mancanza di coordinazione. Gli esami di diagnostica per immagini possono individuare i tumori cerebrali, ma spesso è necessaria una biopsia del tumore per confermare la diagnosi. Il trattamento può consistere in chirurgia, radioterapia, chemioterapia o una combinazione delle stesse.

I tumori cerebrali, indipendentemente dal fatto che siano benigni o maligni, possono causare problemi gravi perché il cranio è rigido e quindi non lascia spazio per l’espansione del tumore. Inoltre, se i tumori si sviluppano in prossimità di parti del cervello che controllano funzioni vitali, possono causare problemi come debolezza, difficoltà di deambulazione, perdita di equilibrio, perdita parziale o completa della vista, difficoltà a utilizzare o capire il linguaggio, e problemi di memoria.

Invadendo direttamente e distruggendo il tessuto cerebrale Esercitando direttamente una pressione sul tessuto circostante Aumentando la pressione all’interno del cranio (pressione intracranica) perché il tumore occupa spazio e il cranio non può espandersi per ospitarlo Causando un accumulo di liquido nel cervello Bloccando la circolazione normale di liquido cerebrospinale attraverso gli spazi all’interno del cervello e causandone la dilatazione Causando sanguinamento

Esistono due tipi principali di tumori cerebrali:

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Primaria: questi tumori hanno origine nelle cellule interne o adiacenti al cervello. Possono essere maligni o benigni. Secondaria: questi tumori sono metastasi. Hanno origine in un’altra parte del corpo e si diffondono al cervello. La loro natura è sempre maligna.

I tipi più comuni di tumori primari includono I gliomi rappresentano il 65% di tutti i tumori cerebrali primari. Le forme non maligne sono definite in base al tipo di cellule o di tessuti di provenienza. Per esempio, l’emangioblastoma proviene dai vasi sanguigni (« ema » si riferisce ai vasi sanguigni e gli emangioblasti sono le cellule che si sviluppano nel tessuto vascolare).

  1. Alcuni tumori non maligni hanno origine nelle cellule dell’embrione (cellule embrionali), nella fase iniziale di sviluppo del feto e possono essere presenti alla nascita.
  2. Le metastasi cerebrali sono molto più comuni dei tumori primari.
  3. Circa l’80% delle persone con metastasi cerebrali ne ha più di una.

Le metastasi provenienti da altre parti del corpo possono diffondersi a una singola area del cervello o a diverse aree. Molti tipi di tumore possono diffondersi al cervello. Tra questi troviamo: I linfomi cerebrali sono sempre più frequenti tra le persone con un sistema immunitario compromesso (come ad esempio i malati di AIDS), tra gli anziani e, per ragioni sconosciute, tra le persone con un sistema immunitario normale. I sintomi si sviluppano sia nei tumori cerebrali benigni sia nelle forme maligne. I tumori benigni crescono lentamente e possono diventare piuttosto grandi prima di causare sintomi. In genere, i tumori maligni crescono rapidamente. Un tumore cerebrale può causare diversi sintomi, i quali insorgono improvvisamente o si sviluppano in modo graduale.

  1. Quali di questi sintomi evolvono per primi e il modo in cui essi si sviluppano dipende dalla dimensione, dal ritmo di crescita e dalla sede del tumore.
  2. In alcune aree dell’encefalo, anche un tumore di piccole dimensioni può avere effetti devastanti.
  3. In altre aree cerebrali, i tumori possono diventare relativamente grandi prima della comparsa di qualsiasi sintomo.

Quando un tumore cresce, spinge e si estende, ma solitamente non distrugge il tessuto nervoso, che può compensare molto bene questi cambiamenti. Quindi i sintomi potrebbero non svilupparsi subito. Molti sintomi derivano da un aumento della pressione all’interno del cranio:

Cefalea Deterioramento della funzione mentale Problemi dovuti alla pressione su strutture specifiche all’interno o vicino al cervello, come sul nervo che va all’occhio (nervo ottico)

Spesso l’aumento della pressione all’interno del cranio causa anche un deterioramento della funzione mentale e un peggioramento dell’umore. La personalità può cambiare. Per esempio, le persone possono divenire riservate, di malumore e, spesso, inefficienti sul lavoro.

  1. Appaiono sonnolente, confuse e incapaci di pensare.
  2. Questi sintomi sono spesso più evidenti per i familiari e i colleghi che per la persona malata.
  3. Depressione e ansia, specie se insorte improvvisamente, possono essere un sintomo precoce di tumore cerebrale.
  4. Le persone possono comportarsi in modo strano.

Possono diventare disinibite o agire in modi mai osservati prima. Negli anziani, alcuni tumori cerebrali determinano sintomi che possono essere fraintesi per uno stato di demenza Demenza La demenza è un lento e progressivo declino della funzione mentale che include memoria, pensiero, giudizio e capacità di apprendimento.

Causare un indebolimento o una paralisi di un braccio, di una gamba o di un lato del corpo Alterare la capacità di sentire caldo, freddo, pressione, un tocco leggero oppure oggetti appuntiti Rendere le persone incapaci di esprimersi o di capire il linguaggio Provocare l’aumento o la diminuzione delle pulsazioni e della respirazione se il tumore comprime il tronco encefalico Ridurre l’attenzione Alterare la capacità di udire, odorare o vedere (causando sintomi quali visione doppia e perdita della vista)

Altri sintomi frequenti di un tumore cerebrale comprendono vertigini, perdita di equilibrio e incoordinazione. Alcuni tumori cerebrali, solitamente i tumori primari, causano crisi convulsive. Se un tumore blocca il flusso del liquido cerebrospinale negli spazi all’interno del cervello (ventricoli), il liquido può accumularsi nei ventricoli, causandone la dilatazione (condizione definita idrocefalo).

  1. Di conseguenza, la pressione endocranica aumenta.
  2. Oltre ad altri sintomi legati all’aumento della pressione, l’idrocefalo ostacola il movimento degli occhi verso l’alto.
  3. Nei bambini molto piccoli, la testa diventa più grande.
  4. Se la pressione endocranica è notevolmente aumentata, il cervello viene spinto verso il basso, poiché il cranio non può espandersi.

Può derivarne un’ ernia cerebrale Ernia: il cervello sotto pressione, I due tipi più comuni sono

Ernia transtentoriale: la parte superiore dell’encefalo (cervello) è spinta attraverso la stretta apertura (incisura tentoriale) nel tessuto relativamente rigido che separa il cervello dalle parti inferiori dell’encefalo (cervelletto e tronco encefalico). Nelle persone con questo tipo di ernia, lo stato di coscienza è ridotto. Il lato del corpo opposto a quello del tumore può essere paralizzato. Ernia tonsillare: un tumore che origina nella parte inferiore dell’encefalo spinge la parte inferiore del cervelletto (tonsille cerebellari) attraverso l’apertura situata alla base del cranio (forame magno). Di conseguenza, il tronco encefalico, che controlla la respirazione, la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa, viene compresso e la sua funzionalità è compromessa. Se non diagnosticata e trattata prontamente, l’ernia tonsillare progredisce rapidamente fino al coma e alla morte.

Anche le persone con metastasi al cervello possono avere sintomi correlati al cancro originale. Ad esempio, se questo ha avuto origine nei polmoni, possono tossire ed espettorare muco con presenza di sangue. Con le metastasi, è normale avere perdita di peso.

Dove metastatizza il glioblastoma?

GBM con diffusione ossea

  • A novembre 2010 una ragazza di 26 anni, dopo cefalea persistente iniziata alcune settimane prima, è stata sottoposta a RM encefalo che ha documentato una lesione parieto-temporale dx.
  • Dopo asportazione chirurgica completa della lesione l’esame istologico ha mostrato trattarsi di un Glioblastoma con assenza di metilazione dell’enzima MGMT e IDH1 non mutato.
  • E’ stata poi trattata con terapia standard (RT e temozolomide concomitante seguiti da temozolomide 200 mg/mq per 5/28 giorni per 9 cicli).

Una RM alla fine del trattamento non ha mostrato evidenza di malattia. A novembre 2011 la paziente ha iniziato a lamentare dolore lombare e disturbo della deambulazione. Una RM del rachide ha evidenziato alterazioni ossee diffuse e presenza di tessuto epidurale a livello lombo-sacrale (Fig 1,2).

  • A livello cervicale le immagini hanno evidenziato minimo potenziamento leptomeningeo (Fig 3) (in assenza di segni clinici di meningite neoplastica).
  • Una scintigrafia ossea ha mostrato aree di captazione patologica multiple al rachide, alle creste iliache bilateralmente (Fig 4).
  • Una RM encefalo è risultata negativa per recidiva di malattia nella sede del pregresso intervento.

Sottoposta a biopsia L/S e a biopsia ossea della cresta iliaca l’esame istologico ha mostrato tessuto compatibile con metastasi ossee diffuse da glioblastoma. L’esame immunoistochimico è risultato positivo per GFAP. L’incidenza di metastasi extracraniche da glioblastoma è rara e viene segnalata in letteratura con una frequenza inferiore all’1% dei casi.

  1. La localizzazione metastatica più frequente è quella vertebrale ma sono riportate anche metastatizzazioni epatiche e linfonodali.
  2. La via di diffusione solitamente è quella ematogena.
  3. Il caso riportato presenta tuttavia alcune peculiarità.
  4. La prima è la breve distanza di tempo dall’esordio di malattia e la diffusa metastatizzazione ossea.

La seconda è il quadro di diffusione ossea, come documentato dalle immagini scintigrafiche ed RM, con coinvolgimento di tutto il rachide, ma anche extravertebrale con coinvolgimento del bacino e della testa del femore. Il terzo aspetto è la completa assenza di segni di ripresa di malattia a livello cerebrale, per cui inizialmente il quadro di coinvolgimento osseo diffuso aveva fatto ipotizzare la coesistenza di altra patologia oncologica.

  1. La paziente è stata irradiata sulla localizzazione sacrale e attualmente sta effettuando un trattamento chemioterapico con fotemustine.
  2. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
  3. Fig 1 : Immagine RM in T1 fat-sat della colonna vertebrale in toto che mostra alterazione di segnale a carico di numerosi corpi vertebrali
  4. Fig 2 : Immagine RM in T1 fat-sat del tratto lombo-sacrale che mostra la presenza di tessuto patologico nello spazio epidurale L/S e presacrale.
  5. Fig 3 : Immagine RM in T1 con gadolinio del tratto cervicale che mostra lieve potenziamento leptomeningeo.
  6. Fig 4 : Scintigrafia ossea che mostra l’interessamento osseo diffuso vertebrale, iliaco bilaterale e femorale dx.

: GBM con diffusione ossea

Qual è il tumore più difficile da curare?

UN TUMORE DIFFICILE DA CURARE – Purtroppo, a differenza di altri tumori, quello del pancreas risulta essere il più letale, Tre quarti dei malati va incontro a decesso entro un anno dalla diagnosi e a 5 anni dalla scoperta della malattia sono vivi solo 8 pazienti su cento,

  • Le ragioni di questo insuccesso sono molte: i sintomi nelle fasi iniziali della malattia non si manifestano oppure non sono sufficientemente specifici per suscitare sospetti, così spesso la neoplasia viene scoperta con troppo ritardo quando il tumore ha formato già molte metastasi.
  • Non solo, per la natura stessa del tumore -particolarmente ricco di tessuto stromale- è difficile veicolare farmaci antitumorali al suo interno.

Due caratteristiche che rendono il tumore del pancreas particolarmente difficile da trattare.

Quali sono i tumori più dolorosi?

I tumori a più elevata incidenza di dolore risultano essere le metastasi (prevalentemente ossee) e i sarcomi (80%), quelli a minore incidenza le leucemie ed i linfomi.

Cosa non dire ad un malato di cancro?

Condividi questo articolo – 2 Dicembre 2016 • Redazione Qual’è la domanda più comune che si rivolge ad un paziente malato di tumore? Se avete pensato a: « Come stai? », avete indovinato! Per quanto queste parole possano sembrare piene di comprensione, nella maggior parte dei casi non sono d’aiuto e in qualche caso possono essere persino dannose.

La scoperta di una diagnosi di un tumore provoca le reazioni più disparate nei parenti e negli amici e può innescare affermazioni e commenti inappropriati benché le persone siano animate dalle migliori intenzioni. Altri invece non sapendo cosa dire e per paura di sbagliare evitano i pazienti, un comportamento che in alcuni casi è peggiore del commento sbagliato.

« Loving, Supporting, and Caring for Cancer Patient » di Stan Goldberg, professore emerito di Disordini Comunicativi alla San Francisco State University, ma soprattutto persona che all’età di 57 è stata diagnosticata con una forma aggressiva di tumore alla prostata affronta l’argomento dell’interazione con i malati di tumore.

Nella sua esperienza racconta come le persone assumano il ruolo di animatori con frasi del tipo: « Non ti preoccupare », « Tutto andrà bene », « Combatteremo insieme questa battaglia », « Una cura verrà sicuramente trovata ». La sua osservazione a riguardo è; « Parole di ottimismo possono anche funzionare nel breve periodo, ma a lungo andare possono anche indurre un senso di colpa se il tumore diventa più virulento e sconfigge anche gli sforzi più strenui da parte del paziente » « Io dovevo confrontarmi con il problema che la mia vita potesse terminare velocemente, e nel caso questo non succedesse, in ogni caso la mia vita sarebbe drammaticamente cambiata.

Il falso ottimismo non teneva in giusta considerazione quello che accadeva nel mio corpo. La scarsa sensibilità degli altri a questa situazione non era causata da una mancanza di sensibilità e attenzione ma dal fatto che non conoscevano cosa poteva essere realmente utile » Tra i suggerimenti sulle cose da non dire:

Evitare commenti del tipo: « Almeno hai perso quei chili di troppo che avevi »Non parlare di altri pazienti con tumori simili, anche se poi alla fine sono finiti bene. Due tumori, purtroppo, non sono mai egualiNon suggerire trattamenti che non hanno basi scientificheNo dire « lo so come ti senti » perché è impossibile per una persona sana capire quello che il paziente sta passandoNon suggerire che lo stile di vita passato del paziente possa essere la causa della malattia, anche nel caso che possa avere realmente contribuito.Non chiedere informazioni a riguardo della prognosi. Se il paziente vuole parlarne bene, diversamente bisogna mettere un freno alla propria curiositàNon caricare il paziente con i propri sentimenti di angoscia. Se sei è in imbarazzo meglio dire « Non so cosa dire » piuttosto che rimanere in silenzio per evitare che la persona di fronte si senta abbandonata

Uno dei modi migliori in cui possiamo aiutare un paziente è quello di fargli la spesa, accompagnarlo dal dottore, prendersi cura dei bambini, e essere sicuri di poter dar seguito alla proposta fatta. Liberamente tratto da « What not to Say to a Cancer patient », Jane Brody, New York Times

Quanto dura la fase terminale?

(all.1 – art.1) Allegato LINEE GUIDA SULLA REALIZZAZIONE DELLE ATTIVITA’ ASSISTENZIALI CONCERNENTI LE CURE PALLIATIVE Premessa L’obiettivo IV del PSN 1998-2000 (decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 1998) aveva gia’ previsto tra le priorita’ del S.S.N.

  • Quella del miglioramento dell’assistenza erogata alle persone che affrontano la fase terminale della vita.
  • Un approfondimento di questa tematica assistenziale potra’ aversi nel prossimo P.S.N.
  • Va comunque ricordato che la consapevolezza, condivisa da stato e regioni, della urgenza di dover affrontare questa problematica ha gia’ portato a: come approccio generale al trattamento dei malati terminali l’approvazione del decreto-legge 28 dicembre 1998 n.450 convertito con modifiche dalla legge 26 febbraio 1999 n.39 che ha previsto, tra l’altro, l’adozione di un programma nazionale per la realizzazione, in ciascuna regione o provincia autonoma, di una o piu’ strutture dedicate all’assistenza palliativa; l’approvazione del decreto ministeriale 28 settembre 1999 con il quale e’ stato adottato il programma nazionale suddetto; l’approvazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 gennaio 2000 con il quale e’ stato approvato l’atto di indirizzo e coordinamento recante i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi per i centri residenziali di cure palliative; l’adozione da parte di tutte le regioni e le province autonome del programma regionale applicativo del programma nazionale comprensivi dei piani per l’integrazione delle strutture residenziali per le cure palliative-hospice con le altre attivita’ di assistenza ai pazienti terminali, nonche’ dei programmi di comunicazione ai propri cittadini sulla rete integrata dei relativi servizi; legge n.12 dell’8 gennaio 2001 « Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore; come approccio specifico ai malati terminali per cancro la previsione contenuta nelle linee guida concernenti la prevenzione, la diagnosi e l’assistenza in oncologia (approvate con apposito accordo sottoscritto tra stato e regioni nella seduta della Conferenza Stato Regioni dell’8 marzo 2001 (rep.

atti n.1179) di specifiche indicazioni sulle cure palliative rivolte ai malati terminali per cancro, in ambito domiciliare, ambulatoriale e presso le strutture residenziali per le cure palliative-hospice, come approccio specifico ai malati terminali per AIDS la previsione contenuta nel Progetto Obiettivo AIDS (approvato con decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 2000 a seguito dell’intesa espressa nella seduta dalla Conferenza unificata del 27 maggio 1999 (rep.

atti n.117/CU) di indicazioni sulle cure palliative rivolte ai malati terminali per AIDS presso hospice, nel capitolo piu’ complessivo dedicato agli interventi di tipo domiciliare, ambulatoriale e presso le comunita’ alloggio e residenze collettive. Le presenti linee guida esprimono orientamenti applicativi ed integrativi dei sopracitati provvedimenti, condivisi dallo Stato, dalle regioni, dalle province autonome e dalle autonomie locali.

Definizioni generali Le cure palliative, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanita’, costituiscono una serie di interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati alla « cura attiva, totale, di malati la cui malattia di base non risponde piu’ a trattamenti specifici.

  1. Fondamentale e’ il controllo del dolore e degli altri sintomi, e in generale dei problemi psicologici, sociali e spirituali.
  2. L’obiettivo delle cure palliative e’ il raggiungimento della migliore qualita’ di vita possibile per i malati e le loro famiglie.
  3. Molti aspetti dell’approccio palliativo sono applicabili anche piu’ precocemente nel corso della malattia. ».

Definizioni specifiche Mentre per i pazienti terminali affetti da cancro le citate linee guida nazionali per la prevenzione, la diagnosi e l’assistenza in oncologia hanno gia’ provveduto a definire criteri di definizione per la terminalita’ neoplastica, ai quali si rinvia, per l’insieme delle condizioni che possono avvantaggiarsi di un approccio di tipo palliativo si conviene di attenersi alle seguenti indicazioni.

Le Cure palliative si caratterizzano per: la globalita’ dell’intervento terapeutico che, avendo per obiettivo la qualita’ della vita residua, non si limita al controllo dei sintomi fisici, ma si estende al supporto psicologico, relazionale, sociale e spirituale; la valorizzazione delle risorse del paziente e della sua famiglia oltre che del tessuto sociale in cui sono inseriti; la molteplicita’ delle figure professionali e non professionali che sono coinvolte nel piano di cura; il pieno rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata; il pieno inserimento e la forte integrazione nella rete dei servizi sanitari e sociali; l’intensita’ dell’assistenza globale che deve essere in grado di dare risposte specifiche, tempestive, efficaci ed adeguate al mutare dei bisogni del malato; la continuita’ della cura fino all’ultimo istante di vita; la qualita’ delle prestazioni erogate.

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Dimensione del problema Metodologia generale. Per definire le dimensioni del problema e fare una stima del fabbisogno di cure palliative, e’ necessario definire preliminarmente per quali gruppi di pazienti le cure palliative sono una risposta appropriata.

Per fare questo si possono utilizzare diverse fonti di dati in parte provenienti dalle statistiche correnti, in parte presenti nella letteratura scientifica sull’argomento. Piu’ precisamente, e’ possibile utilizzare: la mortalita’ specifica per causa, per stimare il numero di pazienti che sono deceduti dopo aver attraversato una fase terminale di malattia caratterizzata da una compromissione della qualita’ di vita.

i risultati di studi prospettici e retrospettivi che hanno stimato la prevalenza dei problemi dei pazienti nei loro ultimi mesi di vita. i dati di utilizzo dei servizi, in primo luogo, quelli di cure palliative. Ciascuna delle tre fonti di informazioni presenta alcuni limiti: La fase terminale di malattia e’ stata stimata nella sua incidenza e durata solo per i pazienti deceduti con tumore.

  • Gli studi sono stati condotti in Inghilterra e Stati Uniti, e il trasferimento dei risultati in contesti diversi potrebbe non essere appropriato.
  • La compromissione della qualita’ di vita durante la fase terminale del paziente oncologico e’ stata studiata in studi retrospettivi (condotti intervistando il caregiver principale del paziente deceduto) e in studi prospettici (condotti su coorti pazienti seguiti dai servizi).

L’approccio retrospettivo permette di studiare campioni rappresentativi dei deceduti per tumore, ma sconta il limite della difficolta’ a ricordare da parte del caregiver. L’approccio prospettico su coorti di pazienti seguiti dai servizi di cure palliative e’ piu’ preciso nella valutazione della compromissione della qualita’ di vita, ma e’ basato su campioni non rappresentativi dell’insieme dei deceduti.

I dati riferiti all’utilizzo dei servizi scontano il limite dell’impossibilita’ di includere nella valutazione i bisogni non soddisfatti dai servizi esistenti: si fa riferimento ai pazienti che avrebbero potuto ricevere beneficio da interventi specifici di cure palliative, ma che non sono stati presi in carico in modo appropriato.

Tumori Tutte e tre le fonti citate nell’introduzione possono essere utili per stimare il fabbisogno di cure palliative nei pazienti oncologici. Studi condotti in diversi Paesi sono concordi nello stimare in circa il 90% la percentuale di deceduti per tumore che attraversano una fase terminale di malattia caratterizzata da un andamento progressivo.

  1. Gli stessi studi stimano la durata media della fase terminale in circa 90 giorni.
  2. Utilizzando questi due parametri e conoscendo il numero dei deceduti per tumore nel proprio territorio, e’ possibile stimare l’incidenza e la prevalenza di pazienti oncologici che potenzialmente beneficerebbero di interventi palliativi.

ogni 1.000 900 222 deceduti per tumore casi incidenti prevalenza per anno per anno puntuale Nota: casi incidenti: 90% dei deceduti; casi prevalenti: casi incidenti per durata (sopravvivenza media). Studi prospettici e retrospettivi (in particolare gli studi inglesi su campioni nazionali di deceduti per tumore) concordano nel rilevare nel paziente oncologico una elevata prevalenza di problemi nell’ultimo anno di vita (dolore e altri sintomi, riduzione della funzionalita’, distress psicologico, problemi relazionali).

Stime inglesi basate sulla prevalenza dei problemi nell’ultimo anno di vita e sull’utilizzo dei servizi di cure palliative, stimano che tra i deceduti per tumore: il 25-65% abbia bisogno di interventi di cure palliative piu’ o meno complessi (fornito da diverse tipologie di servizi); il 15-25% abbia bisogno di ricovero (piu’ o meno lungo) in una struttura tipo hospice.

Complessivamente si puo’ ritenere che il 90% dei deceduti per tumore abbia bisogno di interventi di cure palliative a diverso livello di complessita’. Il 15-25% di questi pazienti beneficerebbe di ricoveri in struttura tipo hospice. Aids In Italia dal 1982, anno della prima notifica, al 31 dicembre 2000 sono stati notificati al Centro Operativo AIDS (COA) 47.503 nuovi casi di AIDS (il 78% maschi).

Alla stessa data, 31.514 pazienti (66.3%) risultavano deceduti. L’andamento del numero di casi e dei deceduti di AIDS in Italia evidenzia un incremento sino al 1995, seguito da una rapida diminuzione nel 1996 e negli anni successivi. La diminuzione registrata nella mortalita’ ha comportato il fatto che il numero dei casi prevalenti sia in crescita negli ultimi anni.

===================================================================== | Casi | Deceduti | Casi prevalenti ===================================================================== 1994. | 5.524| 4.306| 12.915 1995. | 5.661| 4.519| 14.270 1996. | 5.033| 4.098| 14.784 1997.

  1. | 3.350| 2.055| 14.036 1998.
  2. | 2.401| 953| 14.382 1999.
  3. | 2.083| 623| 15.166 2000.
  4. | 1.426| 326| 16.315 Nota: i casi prevalenti sono i casi diagnosticati nell’anno in corso e negli anni precedenti vivi almeno 1 giorno nell’anno considerato.
  5. Fonte: Istituto superiore di sanita’ (2001).
  6. La storia naturale dell’AIDS inoltre, e’ caratterizzata da alternanza di periodi di progressione e di stabilita’, spesso inframmezzati da episodi acuti che richiedono terapie specialistiche ed ospedalizzazione.

Il bisogno di cure palliative e’, quindi, potenzialmente presente durante tutta la durata della malattia AIDS, in particolare nelle fasi di progressione di malattia. Va peraltro ricordato che il cambiamento in atto dei pattern di mortalita’ per AIDS, potrebbe condizionare la causa finale di morte e, piu’ in generale, il quadro dei bisogni di questi pazienti in fase avanzata e terminale di malattia.

Quello che sappiamo sulla compromissione della qualita’ di vita in fase avanzata e terminale deriva da studi condotti su coorti di pazienti seguiti da servizi. Mancano studi basati su popolazioni rappresentative dell’insieme dei pazienti. I dati disponibili evidenziano una compromissione crescente di tutte le aree della qualita’ di vita all’avvicinarsi del decesso, il 90-100% dei pazienti riporta dolore o altri sintomi, distress psicologico (nel 70% dei casi in forma severa).

Una quota di pazienti presenta deterioramento cognitivo. Fra questi, la quota che sviluppa encefalopatia richiede un’elevatissima intensita’ di assistenza ed almeno il 50% dei pazienti ha bisogno di ausili specifici. Rispetto ai pazienti che ricevono generalmente cure palliative nei servizi, questi sono piu’ giovani e spesso con problemi di natura sociale anche molto gravi.

Durante la fase terminale di malattia, la prevalenza e l’intensita’ dei sintomi risulta piu’ elevata rispetto ai pazienti neoplastici in fase terminale. Nel complesso, l’insieme delle evidenze disponibili suggerisce che interventi di cure palliative siano appropriati per i malati di AIDS, in particolare nelle fasi avanzate e terminali di malattia.

E’ dibattuto se gli interventi debbano essere forniti da servizi specifici per questo tipo di pazienti, o se vada incoraggiata l’integrazione nei servizi esistenti di cure palliative. In ogni caso, gli interventi di cure palliative dovrebbero essere disponibili al bisogno ed in associazione a terapie causali dirette a controllare la malattia e le sue complicanze, a partire dalla diagnosi di AIDS.

  • Patologie non neoplastiche ad andamento progressivo Alcune ricerche hanno esplorato la compromissione delle varie componenti della qualita’ di vita nell’ultimo anno, prima del decesso per cause non neoplastiche.
  • Nonostante la scarsita’ delle informazioni, per almeno tre gruppi di malattie le cure palliative (da sole o associate ad altri interventi) sembrano essere un risposta efficace ai problemi di questi pazienti: malattie del sistema cardiovascolare; malattie dell’apparato respiratorio; malattie del sistema nervoso.

Allo stato attuale, per questi pazienti non e’ possibile definire con precisione il bisogno teorico di cure palliative, data la scarsita’ di informazioni relativamente alla fase terminale di malattia e ai problemi che essi affrontano. Anche i dati sull’utilizzo dei servizi sono poco utili dato il piccolo numero di pazienti seguiti da questi.

  1. Studi inglesi ed americani sull’argomento, basati sull’utilizzo dei servizi, stimano che il numero complessivo di pazienti non oncologici che beneficerebbe di interventi di cure palliative interessa 0.5-1 volte il numero di pazienti deceduti per tumore.
  2. Quindi ogni 1.000 deceduti all’anno per tumore, possono stimarsi in 500-1000 nuovi pazienti non oncologici (e non AIDS) che potrebbero beneficiare di interventi di cure palliative.

Livelli assistenziali. Il programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative (decreto ministeriale 28 settembre 1999) nell’all.1 parte I recita: « La rete di assistenza dei pazienti terminali e’ costituita da una aggregazione funzionale ed integrata di servizi distrettuali ed ospedalieri, sanitari e sociali si articola nelle seguenti linee organizzative differenziate e nelle relative strutture dedicate alle cure palliative: assistenza ambulatoriale; assistenza domiciliare integrata; assistenza domiciliare specialistica; ricovero ospedaliero in regime ordinario o Day hospital; assistenza residenziale nei centri residenziali di cure palliative-hospice ».

Con i provvedimenti di adozione dei programmi regionali applicativi del programma nazionale, comprensivi dei piani per l’integrazione delle strutture residenziali per le cure palliative-hospice con le altre attivita’ di assistenza ai pazienti terminali, nonche’ dei programmi di comunicazione ai propri cittadini sulla rete integrata dei relativi servizi, le regioni e le province autonome hanno provveduto a definire l’impianto organizzativo della rete della cure palliative nelle proprie realta’.

Per dare concreta operativita’ a tale rete si conviene che nella fase del suo consolidamento vengano assicurati: accessibilita’ da parte dei cittadini; possibilita’ di intervenire in ambiti diversi: in ospedale, a domicilio, in strutture residenziali e/o di ricovero anche specifiche; disponibilita’ di tipologie assistenziali diversificate: ambulatorio, ricovero diurno, ricovero ordinario, assistenza domiciliare e residenziale; mantenimento della continuita’ assistenziale ottenuta mediante l’integrazione delle diverse opzioni in un unico piano assistenziale; diffusione della cultura delle cure palliative tra il personale sanitario, in particolare nelle strutture ospedaliere, migliorando anche ed incrementando gli interventi di terapia del dolore e degli altri sintomi che provocano sofferenza; integrazione con i servizi sociali; collaborazione organica con le risorse formali e informali esistenti nella societa’: le organizzazioni non profit, in particolare le associazioni di volontariato, la rete parentale e amicale ecc.; raggiungimento del rapporto ottimale costi/benefici; riduzione dei ricoveri inappropriati e delle giornate di degenza; reale attuazione di dimissioni protette; mantenimento di livelli essenziali di assistenza; verifica e la valutazione della qualita’ dei servizi offerti e dei risultati; Le esperienze fin qui maturate suggeriscono l’opportunita’ che le prestazioni siano erogate secondo una gradualita’ di interventi che veda al centro il malato, la sua famiglia e i suoi bisogni; deve, percio’, essere prevista e favorita ogni possibile forma di collaborazione tra strutture pubbliche e private autorizzate ed enti o organizzazioni del terzo settore operanti sul territorio, in particolar modo tra i servizi di medicina primaria e le strutture ospedaliere per garantire una reale continuita’ assistenziale e terapeutica.

Cio’ e’ conseguibile attraverso un modello integrato in grado di far fronte alle esigenze sia dei pazienti che presentano bisogni clinico-sanitari di bassa intensita’, con prevalenti bisogni di natura piu’ specificatamente socio assistenziale, sia dei malati con bisogni di natura clinico/sanitaria e/o di natura assistenziale di particolare complessita’.

La maggior parte dei casi potra’ essere seguita attraverso l’intervento organizzato di personale infermieristico, riabilitativo e psicologico e sociale, coordinato dal medico di medicina generale anche attraverso il raccordo tra servizi distrettuali e servizi comunali alla persona.

Per assicurare l’attivita’ di consulenza specialistica e di eventuale presa in carico della tipologia piu’ complessa di pazienti sia in regime degenziale e/o residenziale che domiciliare, e’ da prevedersi, per ambiti territoriali definiti dalla regione, una funzione specialistica permanente pluriprofessionale e plurispecialistica affidata alla responsabilita’ di un dirigente medico, in possesso di idonea formazione ed esperienza in cure palliative.

Tale funzione specialistica potra’ essere garantita attivando eventualmente una struttura organizzativa multidisciplinare dedicata che configuri un’Unita’ di cure palliative e, composta da esperti nelle diverse problematiche cliniche, psicologiche, sociali, spirituali e di comunicazione, tali da fornire risposte adeguate ai bisogni del malato terminale e della sua famiglia.

  1. E’ fortemente raccomandato che tale equipe preveda almeno le seguenti figure professionali: medico palliativista, infermiere, psicologo, assistente sociale, operatore socio sanitario.
  2. Ove possibile vanno inseriti volontari specificamente addestrati e selezionati, per le attivita’ di accompagnamento e di aiuto di natura non clinica nonche’ assistenti per il sostegno spirituale.

Nell’equipe si integra il medico di medicina generale del paziente assistito e, ove disponibile, lo specialista che ha seguito il paziente. Le regioni definiscono le modalita’ di inserimento delle strutture residenziali per le cure palliative – hospice nella rete ed il loro rapporto con la funzione specialistica sopra delineata.

Percorsi assistenziali Le regioni, nell’ambito dei propri provvedimenti di riassetto dell’assistenza territoriale, hanno provveduto a disciplinare le modalita’ con cui ai soggetti portatori di condizioni o patologie cronico degenerative o comunque multiproblematici e’ garantita una valutazione multidimensionale per l’accesso alla rete dei servizi, al fine di favorire i processi di presa in carico e di ottimizzazione dei percorsi assistenziali.

Per quanto riguarda l’ottimizzazione dei percorsi per i soggetti candidati ad un trattamento palliativo, e’ fortemente raccomandata l’attivazione di interventi che, nella piu’ complessiva articolazione del processo valutativo, garantiscano la specifica linea valutativa finalizzata all’erogazione delle cure palliative, con particolare riferimento alla definizione di criteri per la stesura dei piani di intervento e per il monitoraggio dell’appropriatezza dei servizi erogati.

Cio’ e’ conseguibile prevedendo che all’unita’ valutativa multidisciplinare, ove prevista e/o definita dalla regione, sia comunque garantita la consulenza della funzione specialistica dedicata precedentemente delineata. Nelle realta’ in cui non e’ ancora stato definito un piu’ complessivo sistema per la valutazione multidimensionale, si ritiene possa essere utile l’attivazione di una Unita’ valutativa di cure palliative costituita almeno da: medico del distretto; medico palliativista della struttura specialistica di riferimento; medico di medicina generale del paziente da valutare; infermiere coordinatore.

A queste figure e’ opportuno che si aggiungano altri operatori (medici specialisti, psicologi, assistenti sociali, ecc.) secondo la complessita’ delle problematiche poste da ogni singolo caso. Una formazione specifica per la dirigenza nel campo delle cure palliative L’accesso alla dirigenza medica e’ regolamentato dal decreto del Presidente della Repubblica del 10 dicembre 1997 n.o 483.

Per il secondo livello dirigenziale (dirigente di struttura complessa) all’art.4 sono elencate le discipline ed all’art.5 i requisiti indispensabili per l’accesso. La « Medicina Palliativa » e le « Cure Palliative » non sono comprese nell’elenco delle discipline e neppure nelle tabelle dei servizi equipollenti.

Attualmente nella Comunita’ europea la specializzazione in Medicina/Cure palliative e’ attivata solo nel Regno Unito e in Irlanda (in corso di attivazione in Spagna e in Francia), per cui non risulta ancora ufficialmente riconosciuta, essendo necessaria la presenza di una scuola in almeno quattro Stati membri per il riconoscimento europeo del titolo.

  1. Sara’ pertanto assolutamente necessario, nella attuale e prossima situazione italiana, identificare la figura professionale del medico specialista in Medicina Palliativa con apposito titolo professionalizzante che sara’ a breve, con ogni probabilita’, riconosciuto ufficialmente dall’Unione europea.
  2. Tenuto conto di quanto sopra e considerata la prossima attivazione in tutte le A.S.L.

italiane dei programmi integrati per le cure palliative basati, da un lato sulla figura del medico di medicina generale, dall’alto sulla figura di uno specialista dedicato, e’ opportuno: per quanto riguarda i medici di medicina generale, prevedere, con modalita’ di cui alla normativa vigente, l’inserimento di contenuti formativi in tema di cure palliative sia nei programmi del corso di formazione specifica sia durante le attivita’ di formazione continua; per quanto riguarda gli specialisti dedicati, prevedere una fase transitoria, di durata non superiore ai dieci anni, stabilendo con un idoneo provvedimento i criteri necessari e sufficienti per definire l’idoneita’ ad operare nelle cure palliative, per selezionare i formatori e per stabilire l’accesso alle funzioni dirigenziali.

Nel suddetto provvedimento, dunque, considerata la situazione urgente precedentemente descritta, fermi restando i requisiti generali previsti dalla normativa vigente per l’accesso alle funzioni dirigenziali, per l’affidamento dei compiti dirigenziali nel campo delle cure palliative potra’ essere considerato, quale requisito specifico aggiuntivo, il possesso di una specializzazione dell’area medico-chirurgica e l’aver effettuato corso formativo in « Medicina Palliativa » o « Cure Palliative », di almeno 80 ore, tenuto da istituzioni pubbliche, universita’ o agenzie formative accreditate, in collaborazione con societa’ scientifiche per le « Cure Palliative ».

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Per quanto riguarda l’attivita’ di servizio necessaria per l’accesso al livello dirigenziale, potra’ essere considerata accettabile un’attivita’ svolta per almeno 3 anni nel settore delle cure palliative, espletata in reparti o servizi del Servizio sanitario nazionale, ovvero un’analoga attivita’ documentata di almeno 5 anni in servizi del circuito privato profit e no profit accreditati, dedicati alle « Cure Palliative ».

Il Ministero della sanita’, infine, con proprio atto, prevedendo un comitato organizzatore con la presenza di rappresentanti delle regioni e delle province autonome, istituira’ un corso sperimentale di formazione per dirigenti dell’Unita’ di cure palliative, e definira’ un curriculum italiano essenziale (core curriculum), indispensabile per assicurare l’uniformita’ sia dei contenuti disciplinari delle cure palliative, che dei metodi didattici usati per insegnarle.

Anche sulla base delle esperienze effettuate attraverso il corso sperimentale di cui sopra, le regioni provvederanno successivamente a realizzare ulteriori corsi di formazione dirigenziale nelle cure palliative, tenendo inoltre presenti le piu’ generali modalita’ di organizzazione dei corsi formativi per l’accesso alle funzioni dirigenziali.

  • Per quanto riguarda gli altri operatori professionali impegnati con compiti di coordinamento e/o di formazione nelle attivita’ per le cure palliative (psicologo, assistente sociale, infermiere) occorrera’ altresi’ prevedere una analoga iniziativa di formazione sperimentale a carattere nazionale.
  • Carta dei servizi La Carta dei servizi dell’azienda sanitarie dovra’ prevedere una specifica sezione riguardante i servizi che erogano cure palliative.

Ruolo degli enti locali Le Aziende sanitarie, ai fini di una migliore assistenza dei malati assunti in cura e di un miglior sostegno alle famiglie sia durante l’assistenza sia nella fase dell’elaborazione del lutto, ricercheranno la collaborazione, sottoscrivendo specifici protocolli di intesa e/o convenzioni e/o accordi, con i comuni eroganti prestazioni sociali a rilevanza sanitaria.

E’ auspicabile in particolare, che venga costruito un rapporto di sinergie con gli enti locali e con gli enti no-profit presenti sul territorio impegnati nelle seguenti aree: attivita’ di accompagnamento e diversionali; attivita’ di supporto alla famiglia; controllo di qualita’ della assistenza e della soddisfazione degli utenti; ricerca e formazione; sensibilizzazione e comunicazione con i cittadini; fornitura di risorse professionali in genere; ogni altra attivita’ ritenuta utile ed idonea.

Regioni e comuni promuoveranno e realizzeranno, sulla base delle rispettive competenze e nell’ambito della programmazione regionale e locale in materia di interventi di assistenza sanitaria e socio sanitaria, un efficace collegamento dei servizi per le cure palliative con il sistema dei servizi sociali e delle prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, nel rispetto di quanto previsto dall’atto di indirizzo e coordinamento in materia di integrazione socio sanitaria.

Quanto dura la miglioria della morte?

Agonia in « Universo del Corpo » Agonia Serena Andreotti Dal punto di vista medico per agonia si intende il progressivo spegnersi delle funzioni vitali che si verifica nel periodo di tempo immediatamente precedente la morte in tutti quei casi, e sono la grande maggioranza, in cui essa non colga l’individuo all’improvviso.

  1. L’etimologia del termine (dal greco ἀγών) si riallaccia al concetto di lotta, quasi che il periodo che precede la fine fosse l’estrema lotta che il corpo compie contro la morte.
  2. La durata dell’agonia è assai variabile, da alcune ore ad alcuni giorni: è più breve, per es., nei violenti traumatismi, negli avvelenamenti e nelle infezioni acute, mentre può durare anche giorni nelle malattie a lungo decorso, come per es.

le cardiopatie croniche, o nelle neoplasie. Il momento in cui l’agonia inizia non è determinabile con esattezza, mentre il suo termine è rappresentato dal sopraggiungere della morte, con la cessazione dell’attività cerebrale, cardiaca e respiratoria, simultanea o in successione.

  • Non esiste nessun segno specifico, patognomonico, che caratterizzi l’agonia.
  • Già Ippocrate però descriveva quell’insieme di alterazioni che la fisionomia dell’agonizzante subisce, in un quadro ancora adesso definito facies ippocratica: naso freddo e affilato, occhi affossati con palpebre abbassate, cornea appannata e sguardo vagante, mandibola cadente, bocca semiaperta con labbra secche, pelle della fronte e di tutto il volto cianotica e imperlata di sudore freddo e vischioso.

Tutti i principali organi e apparati vengono coinvolti nel processo di progressiva perdita delle funzioni vitali. Il respiro subisce alterazioni nella frequenza, nell’intensità e nel ritmo; spesso è intermittente (respiro periodico di Cheyne-Stokes), con alternanza di gruppi di atti respiratori d’intensità crescente con gruppi di atti respiratori superficiali e affievoliti, seguiti da pause di apnea; talvolta il respiro assume un carattere sonoro (rantolo tracheale) per il passaggio dell’aria attraverso l’accumulo nei bronchi e nella trachea di muco, che non può essere espulso.

La pulsazione cardiaca diventa sempre più debole e irregolare, e i toni sono difficilmente percepibili all’ascoltazione. Il polso diviene più piccolo, spesso quasi impercettibile alla palpazione o percettibile solo su arterie meno periferiche; è irregolare, intermittente, con frequenza accentuata. L’insufficienza periferica della circolazione comporta il raffreddamento delle estremità (mani, piedi, punta del naso), che assumono colorito cianotico.

Dalle estremità il raffreddamento gradualmente si estende a tutto il corpo. La temperatura corporea generalmente si abbassa (35,5-35 °C), salvo che in alcune malattie infettive o neurologiche, nelle quali la temperatura può rimanere elevatissima e crescere ancora di circa 1 °C dopo la morte.

La forza muscolare progressivamente sparisce, i movimenti volontari cessano e rimangono solo sporadici movimenti involontari o sussulti e tremori. Anche la deglutizione avviene con difficoltà. Fra i sensi la prima a essere danneggiata è la vista che si affievolisce fino a spegnersi; invece l’attività dell’udito persiste più a lungo, pur con grande variabilità individuale, per cui a volte esso diviene più ottuso, mentre altre volte conserva tutta la sua forza.

I riflessi tendinei divengono sempre più deboli, fino a non poter più essere provocati; l’ultimo a scomparire è il riflesso corneale. Vario da caso a caso è il livello della coscienza: vi sono infermi che conservano la loro lucidità fino alla morte; altri sono agitati da idee deliranti; altri ancora, fin dal primo instaurarsi dell’agonia, appaiono privi di coscienza, e in loro sembra persistere solo la vita vegetativa nelle sue funzioni principali, sempre più indebolite.

  • In realtà non è facile determinare se, e fino a quando, l’infermo conservi la lucidità interna del pensiero e si mantenga, nonostante il deficit dei suoi organi di senso, ancora in relazione con il mondo esterno.
  • Una qualche attività elementare degli emisferi cerebrali, e corrispondentemente una traccia di coscienza, non può essere esclusa fin tanto che permangono segni di una qualche attività del sistema nervoso centrale (lamenti, movimenti automatici, riflessi i cui centri di elaborazione sono nella porzione encefalica del sistema nervoso, quali, per es., tosse, ammiccamento, deglutizione).

Tale problema della sussistenza della coscienza nell’agonizzante è della massima importanza dal punto di vista affettivo, etico, religioso e medico-legale (v. ; ).

Che cosa succede al nostro cervello prima di morire?

Il cervello avrebbe un picco di attività cosciente prima della morte Forse esiste una spiegazione scientifica a quella che fino ad oggi era considerata un’esperienza riferita da chi si è ritrovato a un passo dalla morte, ma che, fortunatamente, è riuscita a raccontarla: « Mi è passata tutta la vita davanti agli occhi », alcuni hanno riferito.

A spiegare questo fenomeno è stato uno studio condotto da ricercatori dell’ University of Michigan School of Medicine di Ann Arbor in Usa e pubblicato sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas ). Negli istanti immediatamente precedenti alla morte, afferma lo studio, il cervello può avere un’intensa attività cosciente producendo ricordi.

 » Le esperienze di pre-morte sono state segnalate dal 10-20% dei sopravvissuti agli arresti cardiaci « , illustrano i ricercatori. Alcuni pazienti riferiscono di avere osservato il proprio corpo dall’esterno, altri di vedersi passare sotto gli occhi la propria vita; comune è anche il racconto di un tunnel alla fine del quale si vede una forte luce.

Quando il tumore è in stato avanzato?

Il tumore in stadio avanzato è un tumore che non si può rimuovere chirurgicamente dalla sede iniziale o che si è diffuso oltre la sua sede iniziale.

Dove metastatizza il glioblastoma?

GBM con diffusione ossea

  • A novembre 2010 una ragazza di 26 anni, dopo cefalea persistente iniziata alcune settimane prima, è stata sottoposta a RM encefalo che ha documentato una lesione parieto-temporale dx.
  • Dopo asportazione chirurgica completa della lesione l’esame istologico ha mostrato trattarsi di un Glioblastoma con assenza di metilazione dell’enzima MGMT e IDH1 non mutato.
  • E’ stata poi trattata con terapia standard (RT e temozolomide concomitante seguiti da temozolomide 200 mg/mq per 5/28 giorni per 9 cicli).

Una RM alla fine del trattamento non ha mostrato evidenza di malattia. A novembre 2011 la paziente ha iniziato a lamentare dolore lombare e disturbo della deambulazione. Una RM del rachide ha evidenziato alterazioni ossee diffuse e presenza di tessuto epidurale a livello lombo-sacrale (Fig 1,2).

  • A livello cervicale le immagini hanno evidenziato minimo potenziamento leptomeningeo (Fig 3) (in assenza di segni clinici di meningite neoplastica).
  • Una scintigrafia ossea ha mostrato aree di captazione patologica multiple al rachide, alle creste iliache bilateralmente (Fig 4).
  • Una RM encefalo è risultata negativa per recidiva di malattia nella sede del pregresso intervento.

Sottoposta a biopsia L/S e a biopsia ossea della cresta iliaca l’esame istologico ha mostrato tessuto compatibile con metastasi ossee diffuse da glioblastoma. L’esame immunoistochimico è risultato positivo per GFAP. L’incidenza di metastasi extracraniche da glioblastoma è rara e viene segnalata in letteratura con una frequenza inferiore all’1% dei casi.

  • La localizzazione metastatica più frequente è quella vertebrale ma sono riportate anche metastatizzazioni epatiche e linfonodali.
  • La via di diffusione solitamente è quella ematogena.
  • Il caso riportato presenta tuttavia alcune peculiarità.
  • La prima è la breve distanza di tempo dall’esordio di malattia e la diffusa metastatizzazione ossea.

La seconda è il quadro di diffusione ossea, come documentato dalle immagini scintigrafiche ed RM, con coinvolgimento di tutto il rachide, ma anche extravertebrale con coinvolgimento del bacino e della testa del femore. Il terzo aspetto è la completa assenza di segni di ripresa di malattia a livello cerebrale, per cui inizialmente il quadro di coinvolgimento osseo diffuso aveva fatto ipotizzare la coesistenza di altra patologia oncologica.

  1. La paziente è stata irradiata sulla localizzazione sacrale e attualmente sta effettuando un trattamento chemioterapico con fotemustine.
  2. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
  3. Fig 1 : Immagine RM in T1 fat-sat della colonna vertebrale in toto che mostra alterazione di segnale a carico di numerosi corpi vertebrali
  4. Fig 2 : Immagine RM in T1 fat-sat del tratto lombo-sacrale che mostra la presenza di tessuto patologico nello spazio epidurale L/S e presacrale.
  5. Fig 3 : Immagine RM in T1 con gadolinio del tratto cervicale che mostra lieve potenziamento leptomeningeo.
  6. Fig 4 : Scintigrafia ossea che mostra l’interessamento osseo diffuso vertebrale, iliaco bilaterale e femorale dx.

: GBM con diffusione ossea

Cosa non dire ad un malato di cancro?

Condividi questo articolo – 2 Dicembre 2016 • Redazione Qual’è la domanda più comune che si rivolge ad un paziente malato di tumore? Se avete pensato a: « Come stai? », avete indovinato! Per quanto queste parole possano sembrare piene di comprensione, nella maggior parte dei casi non sono d’aiuto e in qualche caso possono essere persino dannose.

La scoperta di una diagnosi di un tumore provoca le reazioni più disparate nei parenti e negli amici e può innescare affermazioni e commenti inappropriati benché le persone siano animate dalle migliori intenzioni. Altri invece non sapendo cosa dire e per paura di sbagliare evitano i pazienti, un comportamento che in alcuni casi è peggiore del commento sbagliato.

« Loving, Supporting, and Caring for Cancer Patient » di Stan Goldberg, professore emerito di Disordini Comunicativi alla San Francisco State University, ma soprattutto persona che all’età di 57 è stata diagnosticata con una forma aggressiva di tumore alla prostata affronta l’argomento dell’interazione con i malati di tumore.

Nella sua esperienza racconta come le persone assumano il ruolo di animatori con frasi del tipo: « Non ti preoccupare », « Tutto andrà bene », « Combatteremo insieme questa battaglia », « Una cura verrà sicuramente trovata ». La sua osservazione a riguardo è; « Parole di ottimismo possono anche funzionare nel breve periodo, ma a lungo andare possono anche indurre un senso di colpa se il tumore diventa più virulento e sconfigge anche gli sforzi più strenui da parte del paziente » « Io dovevo confrontarmi con il problema che la mia vita potesse terminare velocemente, e nel caso questo non succedesse, in ogni caso la mia vita sarebbe drammaticamente cambiata.

Il falso ottimismo non teneva in giusta considerazione quello che accadeva nel mio corpo. La scarsa sensibilità degli altri a questa situazione non era causata da una mancanza di sensibilità e attenzione ma dal fatto che non conoscevano cosa poteva essere realmente utile » Tra i suggerimenti sulle cose da non dire:

Evitare commenti del tipo: « Almeno hai perso quei chili di troppo che avevi »Non parlare di altri pazienti con tumori simili, anche se poi alla fine sono finiti bene. Due tumori, purtroppo, non sono mai egualiNon suggerire trattamenti che non hanno basi scientificheNo dire « lo so come ti senti » perché è impossibile per una persona sana capire quello che il paziente sta passandoNon suggerire che lo stile di vita passato del paziente possa essere la causa della malattia, anche nel caso che possa avere realmente contribuito.Non chiedere informazioni a riguardo della prognosi. Se il paziente vuole parlarne bene, diversamente bisogna mettere un freno alla propria curiositàNon caricare il paziente con i propri sentimenti di angoscia. Se sei è in imbarazzo meglio dire « Non so cosa dire » piuttosto che rimanere in silenzio per evitare che la persona di fronte si senta abbandonata

Uno dei modi migliori in cui possiamo aiutare un paziente è quello di fargli la spesa, accompagnarlo dal dottore, prendersi cura dei bambini, e essere sicuri di poter dar seguito alla proposta fatta. Liberamente tratto da « What not to Say to a Cancer patient », Jane Brody, New York Times

Quante volte si può operare il glioblastoma?

Cura e speranza di vita di un glioma Per la cura dei gliomi, esistono diversi approcci terapeutici. La scelta di un determinato percorso di terapie e l’esclusione di un altro dipende da sede, dimensione, grado e tipo di glioma, età e stato di salute del paziente.

Il trattamento solitamente più praticato è la rimozione chirurgica della massa tumorale, Gli altri trattamenti adottati consistono in radioterapia, chemioterapia e radiochirurgia. Questi possono essere messi in pratica sia dopo l’operazione di rimozione chirurgica, come completamento di questa, sia come trattamento a sé stante, se il tumore è in una posizione inaccessibile.

Ai pazienti con gliomi di I e II grado si caldeggia l’intervento chirurgico di rimozione, in quanto, di solito, tale operazione ha un discreto successo. Se il chirurgo dovesse optare per una resezione parziale del tumore al termine dell’operazione si procede con sedute di radioterapia o chemioterapia.

L’asportazione del gliomi di III grado va effettuata sempre se è in una sede raggiungibile e nei limiti del possibile, cioè va rimossa più massa tumorale che si può. Al termine dell’intervento, sono fondamentali i cicli di radioterapia e/o di chemioterapia per eliminare (si spera definitivamente) ciò che rimane della neoplasia.

Purtroppo, anche quando l’intervento viene eseguito in modo preciso e tempestivo, le probabilità di guarire sono davvero esigue. Il glioblastoma multiforme ( GBM ) è un glioma di grado IV ed è il glioma grave più comune. Il GBM ha un ritmo di crescita veloce e una capacità infiltrante notevole.

  1. L’unica cura attuabile, in questi sfortunati frangenti, consiste nell’asportazione della parte più consistente del tumore, abbinata alla radioterapia e alla chemioterapia.
  2. Se dovesse esserci una recidiva, è possibile intervenire nuovamente e praticare un’altra resezione del tumore.
  3. La prognosi, per un individuo affetto da glioma, dipende dal tipo di glioma stesso.

I pazienti giovani hanno un’aspettativa di vita post-intervento più lunga dei pazienti anziani. Le speranze di vita di coloro che sono stati operati di Gliomi di grado I e II sono elevate e solitamente, non si verificano ricadute. Per i gliomi di III grado la sopravvivenza media è di 2-3 anni circa mentre per i gliomi di IV grado la percentuale di sopravvivenza, dopo un anno, è del 30% e dopo due anni è solo del 14%.